La parola liscio (liscia) sta a significare liscio, levigato
la parola deriva dal latino lisius.
Trattiamo questa parola non tanto per se stessa, in quanto non è certamente tra le parole in disuso o dimenticate, ma perché lo sono alcuni termini, frasi o modo di dire legati ad essa.
‘0 liscio: gioco praticato a Napoli fino agli anni 60 (ne parliamo a parte).
So liscio pe te: sono a tua disposizione (pronto a litigare).
Piglià ‘e liscio: non è riuscito a frenare, riferito soprattutto a tram.
Liscio ‘e scorza: avere la coscienza pulita.
Liscio e sbriscio: squattrinato, accoppiamento di liscio con sbriscio, leggero, vuoto, al verde, sbrindellato, seminudo.
Liscio: nel gioco del tresette significa che ho carte dello stesso seme.
Liscio e busso: come sopra ma ho anche o un due o un tre.
La parola verrizzo sta a significare voglia, desiderio incomposto
Il plurale è verrizze
Secondo Raffaele Bracale, “ indica che la parola possa derivare dall’unione del verbo latino velle ( letto rotacizzato come verre) con il sostantivo izza agganciandosi semanticamente ad un comportamento originariamente iracondo, stizzoso e poi capriccioso, stravagante, strano; la voce izza è piú nota nella forma varia ed intensiva bizza (ma sia izza che bizza provengono dall’antico sassone hittja = ardore).
Partendo da vell(e)+izza si può pervenire a vellizzo e di qui a verrizzo con tipica alternanza della liquida L→R, successivo affievolimento della piena e tonica mutatasi nella evanescente e e maschilizzazione del termine passato da verrizza a verrizzo adattamento resosi necessario atteso che – pur trattandosi di un difetto (che comunque comportava una manifestazione d’ardore,non ipotizzabile di pertinenza del sesso femminile) era piú consono (in epoca di maschilismo) ritenerlo di genere maschile (suff. in o) piuttosto che femminile (suff. in a).”
In ogni modo può anche significare lussuria, libidine, ma di sicuro significa anche bizze, capricci e fa soprattutto riferimento a donne e bambini.
Il grande Raffaele Viviani ne la canzone ‘a rumba d’ ‘e scugnizze scrive:
La parola bombò, deriva dal francese boubon e significa caramella, ma da una storpiatura della parola Bubbone, derivante dal latino bubonis, significa bitorzolo, gonfiore, in special modo quando un bambino urta con la testa
Pampuglia, deriva dallo spagnolo pampunaje o pampillos (baccello), sta ad indicare il truciolo di legno.
La pampuglia si ottiene dalla piallatura del legno, ovvero quella striscia sottile che molto spesso si arrotola su se stessa.
Nella lingua napoletana e nello specifico della nomenclatura di falegnameria esistono varie categorie di pampuglie.
Ovvero ci sono degli specificativi diversi secondo la forma o provenienza dei trucioli; abbiamo dunque: –pampuglia riccia quella a spirale da legno dolce, –pampuglia ‘e chianuzzella quella strettamente arrotolata, prodotta non dalla pialla grande, ma da una pialla piccola, –pampuglia ‘e ‘ntraverzatura che è il truciolo, per solito di legni più duri, ottenuti per piallatura operata controfilo che produce perciò trucioli irregolari e frammentati.”
Il tutto sempre ottenuto attraverso l’uso di pialla, sia essa manuale che con un macchinario elettrico. In napoletano la pialla è chiamata chianozza che proviene dal latino: planula , attrezzo atto a rendere piana, la superficie di un asse di legno.
Le pampuglie venivano e vengono (quando si trovano) nelle pizzerie in quanto consentono di ottenere una rapida fiammata e un istantaneo innalzamento della temperatura del forno, elementi indispensabili per una corretta cottura della vera pizza napoletana
Ma pampuglia ha anche altri significati, essendo una cosa sottile e leggera, significa anche “cosa da nulla”,” cosa leggera”,” inezia”.
In gastronomia indica gli sfrittoli di pasta zuccherata ossia quel tipo di dolce nastriforme carnascialesco altrove detto chiacchiera, bugia, frappa.
‘O zarellaro oppure zagarellaro o anche zagrellaro era il merciaio, o al femminile, la merciaia
Ma oltre ad indicare la persona si indicava anche propriamente la bottega, nella quale si effettuava la vendita di “qualsiasi cosa”, dalle caramelle ai giocattoli, dagli articoli per la casa a quelli per i vestiti. Il termine deriva da zagarella, ossia nastro, fettuccia di seta. Questi empori nati per la vendita di supporto alla attività di sartorie o a lavori casalinghi sartoriali e quindi nastri, stringhe, forbici, spilli, bottoni e stoffe, insieme di accessori che in dialetto prendeva il nome di zagarelle, come detto erano soprattutto i nastri, le trine (o merletti). Col tempo, poi, la bottega si arricchì di altra merce e ci si poteva rifornire di scope, secchi, stracci, caramelle, alcool, insetticidi, alcool, ovatta e addirittura siringhe per le iniezioni, cerotti, giocattoli, articoli di cartoleria, quali penne e pennini, ma anche confezioni di dolciumi e le caramelle.
Oggi nella classificazione di codice attività (codice Ateco) li mette come “empori ed altri negozi non specializzati di vari prodotti (47.19.90)”.
Proprio per il suo modo di fare commercio in maniera confusionaria, il termine zarellaro viene utilizzato ancora oggi in senso dispregiativo per indicare un soggetto privo di specializzazione specifica e di professionalità.
Ci sta anche una canzone: ‘A zarellara di Capillo-Rendine, cantata da Maria Paris
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